Youssef Sbai sarà il primo docente di fede musulmana "Spiegherò agli agenti la mia religione"

di Valentina Stella Il Dubbio 05/01/2017
Youssef Sbai sarà il primo docente di fede musulmana ad entrare nelle scuole italiane di Polizia Penitenziaria. Cinquantasei  anni, da 36 in Italia, Sbai è originario del Marocco, musulmano sunnita, vive con la moglie a Massa Carrara, fa l'imprenditore e segue un dottorato in Scienze sociali presso l'Università di Padova, è stato cofondatore e vice presidente nazionale dell'Ucoii, l'Unione delle comunità islamiche in Italia.
Dottor Sbai qual è lo scopo di questo suo nuovo incarico? Sono due gli obiettivi: in primo luogo quello di aiutare i detenuti musulmani a professare la propria religione in modo corretto; e poi quello di aiutare il personale carcerario a capire la religione musulmana e gli aspetti culturali relativi ai territori di appartenenza dei detenuti per comprendere il loro comportamento,  così da esercitare la loro professione con più serenità e riuscire ad individuare un comportamento religioso "corretto" e un altro che potrebbe essere una strumentalizzazione della religione.
Parliamo del rischio di radicalizzazione quindi. 
Noi dobbiamo metterci nei panni del personale carcerario che non conosce la religione musulmana ma vede l'immagine del detenuto musulmano che proviene dalla televisione. Il detenuto musulmano non è solo colui che ha commesso un reato ma è quello che in carcere comincia ad indossare una tunica bianca, si fa crescere la barba ed inizia a compiere pratiche religiose. L'agente deve saper rispondere alle domande: come definire tale comportamento del detenuto? Tale comportamento è corretto oppure no? Quando può essere l'inizio di una eventuale radicalizzazione? Le mie lezioni serviranno a dare queste risposte.
E' vero anche che alcuni detenuti sfruttano la religione per eludere dei doveri? Sì, è vero. Cominciano a pregare per convincere il personale a lasciarli in pace in determinati momenti, per evitare ad esempio di incontrare il magistrato.
Nelle carceri italiani la libertà di culto dei detenuti musulmani è rispettata? Dai dati del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) i detenuti musulmani praticanti sono tra i 5000 e i 6000. In Italia in circa 50 istituti ci sono delle sale di preghiere, che però non possono essere definite moschee. In altre carceri, in particolari festività, come per esempio durante il mese del ramadan, alcune sale vengono adibite a luogo di preghiera solo per un lasso determinato di tempo.  Quindi direi che la pratica religiosa non è affatto ostacolata nelle carceri italiane.
Si potrebbe fare qualcosa di più? Certo, intensificare il rapporto tra l'amministrazione penitenziaria e le figure professionali musulmane.
La radicalizzazione quindi si combatte anche attraverso un forte approccio culturale? Non solo culturale, ma anche sociale e soggettivo, cioè agendo su una persona in particolare che sta vivendo un momento di crisi. La scintilla della radicalizzazione può avere origini diverse.
Un problema all'interno delle carceri sono gli 'imam fai da te', persone che si improvvisano ministri di culto ma che veicolano messaggi sbagliati. Io sono contrario a questo fenomeno. Nella maggior parte delle carceri sono i detenuti che si mettono d'accordo e individuano tra loro un imam. Solo in 15 casi l'imam viene da fuori. Il detenuto è dentro per scontare una pena, non per prestare un servizio agli altri detenuti, come può essere quello di amministrare il culto. Nel suo discorso religioso sarà sempre condizionato dal suo status di carcerato. E poi sono contrario al sermone del venerdì solo in lingua araba. Deve essere recitato o con la traduzione italiana o solo in italiano per permettere anche agli operatori penitenziari di comprendere il messaggio religioso veicolato nel discorso degli imam.

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