Caso Cucchi, chiesto giudizio per 5 carabinieri

Di Valentina Stella (Il Dubbio 15/02/2017)

«Ho fiducia ancora nella giustizia. Quello che è avvenuto in questi mesi, e in particolare ieri, è la dimostrazione che non bisogna mai smettere di crederci fino alla fine. Da adesso si ricomincia e lo si fa in maniera del tutto diversa, con la parola verità». Ilaria Cucchi commenta la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Roma per i cinque carabinieri coinvolti nell’indagine bis sulla morte di suo fratello Stefano, nell’ottobre 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere finito in manette per possesso di droga. Tre militari ( Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco) devono rispondere di omicidio preterintenzionale, aggravato dall’aver commesso il fatto con abuso di poteri e con violazione dei doveri inerenti alle funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria, per aver pestato Cucchi il giorno del suo arresto, “con schiaffi, calci e pugni”, provocandogli una “rovinosa caduta con impatto al suolo della regione sacrale” che, “unitamente alla condotta omissiva dei sanitari che avevano in cura Cucchi al Pertini”, poi hanno portato alla morte. Tedesco è accusato anche di falso e calunnia al pari del maresciallo Mandolini, comandante all’epoca della stessa Stazione, mentre della sola calunnia risponde il militare Nicolardi. «Questo è il momento migliore - prosegue Ilaria Cucchi per dar vita all’associazione dedicata a Stefano, che presenterò il 18 febbraio. Nasce dal nostro vissuto, da quello che ci portiamo dietro e a cui vogliamo dare un senso per non far rimanere solo il dolore; ha l’obiettivo di dare voce a tutti gli altri, troppi Stefano, vittime di vicende simili, ma di cui non importa nulla a nessuno».
Soddisfatto il legale della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo: «È un passo fondamentale nella direzione del processo che questa volta avrà l’impostazione giusta, a differenza dei precedenti che avevamo aspramente criticato. La nostra battaglia ha avuto come obiettivo quello di mantenere ancorato il processo ai fatti, senza nessuna astrazione». L’avvocato Anselmo sottolinea che per la prima volta, con l’accusa di omicidio preterintenzionale, si riscontra il legame tra quello che ha subìto il ragazzo dopo il suo arresto e la sua morte: «Si è tentato di recidere, di nascondere questo legame in tutti i modi ma alla fine la verità emerge. È stato fondamentale per la riapertura del caso il nostro lavoro sugli aspetti medico- legali. Si diceva che eravamo in presenza di lesioni lievi da caduta, invece abbiamo accertato che erano gravissime, che ne hanno determinato il decesso. Stefano stava bene, era andato in palestra, a lavorare, aveva trascorso una giornata come tutte le altre, dopo poche ore viene arrestato, la famiglia non lo vede più e trascorsi pochi giorni muore. Si voleva far passare l’idea che fosse morto senza alcun nesso con il contesto in cui si era trovato dopo l’arresto: un’altra inaccettabile forzatura. Abbiamo evidenziato, con la relazione tecnica del professor Carlo Masciocchi, il grossolano e macroscopico errore relativo alla vertebra lombare l3: la tac dei periti nominati dal giudice fotografava solo una parte della vertebra, escludendo quella dove c’era la frattura. Poi ci sono stati due testimoni che hanno vinto la paura e la diffidenza e si sono fatti avanti. Dopo di che la procura di Roma ha avuto l’onestà intellettuale di fare una inversione ad U, di procedere senza pregiudizi e svolgere un’ottima inchiesta».
Dopo 8 anni dalle parole del legale della famiglia Cucchi traspare la soddisfazione: «Dal momento di più grande difficoltà, quando Ilaria pianse per le precedenti assoluzioni, non abbiamo mai smesso di credere nella giustizia. Abbiamo avuto un atteggiamento fortemente dialettico, di accusa, di critica nei confronti di una inchiesta male impostata a cui è seguito uno sfacelo giudiziario, come dissi fin dalla prima udienza». Così come si dice convinto che sia servito far vedere dentro e fuori dall’aula le immagini di Stefano Cucchi morto: «Se non l’avessimo fatto non saremmo qui. Hanno dato concretezza e richiamato alle loro responsabilità tutti perché stavamo parlando di una persona morta a seguito delle botte, e non di un malato di cancro».

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