Processo mediatico e processo penale


di Valentina Stella Il Dubbio 16 02 2017

È in libreria "Processo mediatico e processo penale Per un'analisi critica dei casi più discussi da Cogne a Garlasco" (Giuffrè editore, Milano 2016, € 22). Il volume si occupa delle più note vicende giudiziarie degli ultimi anni e le riaffronta attraverso una analisi critica delle prove e degli atti giudiziari. Inoltre mette in luce le devianze delle "rappresentazioni mediatiche" dei processi penali di fatti di cronaca nera. Un testo utile per gli esperti ma anche per chi volesse riscoprire il gusto e il rispetto per il ragionevole dubbio. Ne discutiamo con la curatrice del libro Carlotta Conti, professore associato di Diritto processuale penale dell'Università di Firenze. Nelle conclusioni il dottor Iacoviello usa tre interessanti espressioni in riferimento all' "altro processo, quello dell'opinione pubblica": "essa si informa e decide in base ai verbali dei mass media", "la ragionevole durata del processo dell'opinione pubblica si consuma in poco tempo" e "la morale si confonde con il diritto".  Si possono così riassumere le storture del processo mediatico ai fatti di cronaca nera e giustizia? E quali sono gli anticorpi? Si tratta di una sintesi efficacissima, che condivido in pieno. Gli anticorpi si trovano prima di tutto nel processo. Senza dubbio, sarebbe necessario che fosse rispettato il divieto di pubblicazione di atti, sancito con chiarezza da una norma del codice di procedura penale, l’art. 114, oggi sostanzialmente disapplicata anche perché la violazione, se fosse perseguita, sarebbe estinguibile mediante oblazione con il pagamento di 129 euro. Ma più ancora, visto che il processo mediatico si ciba anche soltanto di informazioni generiche che poi deforma, ingrandisce e talora mistifica, sarebbe indispensabile che il processo “giudiziario” recuperasse efficienza. Per un verso, tutti gli operatori processuali dovrebbero accogliere un’etica della responsabilità; per un altro verso, sarebbe necessario che il rito recuperasse efficienza: se il processo giudiziario fosse rapido e serio, i giornalisti, temendo la smentita, sarebbero meno liberi nella celebrazione di quello mediatico. Invece oggi le disfunzioni e le lungaggini del processo giudiziario fanno sì che la smentita non arrivi se non a distanza dalla chiusura mediatica della vicenda. Inoltre, nel processo giudiziario si riscontra un’assenza di certezza, dovuta ai continui ribaltamenti, come dimostrano molte delle vicende trattate nel volume. Con una qualche semplificazione, si può affermare che i ribaltamenti sono causati dal rifiuto di accogliere la cultura delle prove e il criterio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio. Come mai non si rispetta il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive? Qui si è dinanzi ad un problema squisitamente giornalistico e forse la domanda dovrebbe essere rivolta agli operatori del settore. Di certo, se il giornalista temesse una smentita rapida, efficace e certa starebbe più attento, a prescindere dal rispetto della deontologia che si impone in ogni caso. La dottoressa Capitani sul caso Cogne evidenzia i pericoli  del metodo investigativo e accusatorio della costruzione del bersaglio intorno alla freccia, detto in altre parole gli inquirenti si innamorano pregiudizialmente di una tesi e solo dopo vi costruiscono intorno gli indizi. Sicuramente si tratta di un approccio fallace. Ciò non toglie che la polizia giudiziaria possa muoversi nella logica del sospetto, essendo il “fiuto” degli investigatori una risorsa alla quale il codice non intende rinunciare. Ciò in ragione del fatto che lo stesso codice impone al pubblico ministero una sintesi logico-giuridica all’esito delle indagini. Egli non a caso, come ha affermato in più occasioni il Primo Presidente della Cassazione, ha il compito di formulare la migliore ipotesi ricostruttiva, idonea a resistere all’urto del contraddittorio dibattimentale, che costituisce un fondamentale tentativo di smentita. La struttura del processo, se ben applicata, si basa su di un meccanismo conoscitivo esattamente opposto alla costruzione del bersaglio intorno alla freccia. Nel caso Kercher i giudici si sono affidati al tradizionale approccio della convergenza del molteplice, ovvero indizi non probanti ma che presi nell'insieme a loro parere costituivano un elemento forte per la condanna. La Cassazione ha ribaltato questo approccio. Come viene evidenziato nel volume, è oggi in atto uno scontro tra due modi opposti di valutare le prove. Da un lato, la convergenza del molteplice, approccio datato e metodologicamente criticabile; da un altro lato, quella che io chiamo la “scienza delle prove”: un metodo logico-razionale di valutazione di ogni elemento considerato in se stesso e successivamente collocato nel quadro delle altre risultanze. La Cassazione accoglie senz’altro questo più moderno metodo di valutazione già, peraltro, fatto proprio dalla sentenza della Corte d’assise d’appello di Perugia. Nell’esame di ogni indizio quella sentenza ha provveduto alla verifica e, soprattutto, al tentativo di smentita delle leggi scientifiche e delle massime di esperienza ad esso applicabili. Soltanto in tal modo si raggiunge quel requisito che la Cassazione chiama “certezza” dell’indizio. Qual è oggi il rapporto tra il giudice e la prova scientifica? Purtroppo accade che quella scientifica sia considerata la prova “regina”: una vera e propria scorciatoia non soltanto investigativa ma addirittura motivazionale, tale da alleggerire gli oneri argomentativi in relazione ad ogni altra risultanza. Essa sembra segnare la svolta che risolve il caso e di fronte alla quale tutte le altre prove si scolorano e perdono il proprio significato per essere plasmate in una determinata direzione. Si tratta di un fenomeno pericolosissimo giacché eventuali scorrettezze nella raccolta delle prove scientifiche rischiano di condurre dritti all’errore giudiziario. Per evitare che gli errori commessi nella raccolta delle prove si trasformino in decisioni sbagliate, occorre verificare attentamente sia il metodo scientifico utilizzato, sia la sussistenza di un quadro probatorio esterno nel cui contesto il dato scientifico deve coerentemente incastonarsi senza sostituire o deformare arbitrariamente gli altri elementi. Anzi, in presenza di prove scientifiche, così pericolose, le ulteriori risultanze assumono un rilievo centrale nel tentativo di smentita dell’ipotesi accusatoria, reso oggi ancora più indispensabile. Certamente la sentenza della Cassazione sul caso di Meredith Kercher si è discostata dall’approccio tradizionalista ed ha dettato un vero e proprio decalogo in materia, sia con riferimento alle cautele da adottare in relazione alle prove scientifiche, sia in merito alle garanzie che devono essere riconosciute alla difesa. Tra le molte affermazioni innovative della Cassazione (tutte analiticamente trattate nel contributo del Prof. Tonini) la più significativa è forse che un dato scientifico non verificato, proprio perché privo dei necessari connotati della precisione e della gravità, non può conseguire, in ambito processuale, neppure la valenza di indizio. In Italia le condanne vengono sempre pronunciate nel rispetto dello standard probatorio imposto dal principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio? Si impone una risposta negativa, per quanto io non possa fare statistiche. La dimostrazione la si trova nei capovolgimenti che hanno caratterizzato i processi trattati nel volume. Più utile mi sembra sottolineare che nel nostro sistema il criterio del ragionevole dubbio si fonde con l’obbligo di motivazione completa, legale e razionale. Dunque, si è dinanzi a qualcosa di radicalmente diverso dal reasonable doubt dell’esperienza d’oltreoceano, dove il verdetto è immotivato. La ragionevolezza del dubbio, da etereo attributo contraddistinto più che altro dalla suggestiva portata evocativa, si tramuta da noi  in una logica ferrea e implacabile, imperniata su di un costante tentativo di smentita. L’assenza o l’erronea applicazione di tale metodo, tutt’altro che innocua, risulta aggredibile con l’impugnazione sia di merito, sia di legittimità. Di qui l’apprezzabile significato giuridico della formula in esame

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