Gli annullano i domiciliari ma gli vietano di fare il sindaco

di Valentina Stella Il Dubbio 23 maggio 2018


Nel codice di procedura penale esiste un articolo, il 289,  che al comma 3 prescrive che un provvedimento che dispone la sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio “non si applica agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare”. In altre parole: se un sindaco, ad esempio, viene accusato di un reato che prevedrebbe l’interdizione dai pubblici uffici, a lui tale misura non si può e non si deve applicare in via cautelare  perché è stato eletto grazie ad un consenso popolare.  Concetto chiaro, semplice, cristallino: non per i giudici del Tribunale del Riesame di L’Aquila che in barba alla stessa legge che dovrebbero correttamente applicare hanno comminato la predetta sospensione ad un primo cittadino, impedendogli di fatto di esercitare il suo ruolo. La storia è quella di Giuseppe D’Angelo, che nel 2016 con il 55 per cento dei voti è stato eletto sindaco di Casacanditella, piccolo comune abruzzese di circa 1300 abitanti, sito nella provincia di Chieti, e capofila della Unione dei Comuni delle Colline teatine. Una mattina di settembre 2017 D’Angelo viene portato in caserma per foto segnaletiche e impronte digitali e gli vengono notificati gli arresti domiciliari perché accusato dalla Procura della Repubblica di Avezzano di corruzione e turbativa d’asta; secondo il Pm Maurizio Maria Cerrato, D’Angelo avrebbe ricevuto – come leggiamo nell’ordinanza del gip Francesca Proietti -  “una somma complessiva non inferiore ad € 12.400” da parte di un titolare di una ditta di costruzioni e da un faccendiere “al fine di comprare i favori e la disponibilità a commettere illeciti nel corso di gare di asta pubblica bandite dalla predetta Unione di Comuni così da condizionare le gare stesse” in favore dei presunti corruttori. Le consegne di denaro  sarebbero state  “camuffate con diverse modalità fra le quali l’acquisto di biglietti di una lotteria patronale, il noleggio di tendoni per una festa, contributi di beneficenza”. Inoltre gli stessi in concorso con altri soggetti “turbavano la gara bandita dalla predetta Unione ed avente ad oggetto i lavori di riassetto territoriale dell’area a rischio idrogeologico”. Il Gip del Tribunale di Avezzano dispone quindi gli arresti domiciliari per D’Angelo, opponendosi alla richiesta del pm di custodia cautelare in carcere,  e specificando a pag 134 che D’Angelo – si badi bene – non avrebbe potuto subìre alcuna misura sospensiva delle sue funzioni proprio in virtù dell’articolo 289 ccp su citato. Avverso la misura cautelare domiciliare l’avvocato di D’Angelo, Antonio Luciani, presenta una istanza al Tribunale del Riesame di L’Aquila. Sorprendentemente i tre giudici – Giuseppe Gargarella, Guendalina Buccella e Daria Lombardi – con decisione del 25 ottobre 2017 sostituiscono la misura degli arresti domiciliari con quella della sospensione dall’esercizio di pubblici uffici e servizi, così interdicendo l’uomo per la durata di un anno dall’incarico di Sindaco del Comune di Casacanditella. D’Angelo dopo circa un mese di domiciliari è dunque libero ma non può fare il sindaco. La decisione di interdire D’Angelo è talmente sbalorditiva che mette d’accordo accusa e difesa nel ricorrere in Cassazione: il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di L’Aquila lamenta appunto la violazione proprio dell’art. 289 cpp, la difesa anche la mancata valutazione da parte dei giudici del Riesame degli elementi a discolpa dell’assistito. La sesta sezione della Cassazione il 16 febbraio 2018 accoglie il ricorso ritenendo fondati i motivi sull’inapplicabilità dell’art. 289, comma 3, cpp nonché quello relativo alla carenza di motivazione rispetto ai dati raccolti dalla difesa in sede di indagini ed illustrate al Tribunale del Riesame. La censura da parte degli ermellini della condotta dei giudici del riesame è tranchant: in merito al primo punto i giudici danno ragione ai ricorrenti perché ci si trova dinanzi ad un ‘inequivoco dato testuale’, ossia è palese che non si può interdire il Sindaco; relativamente all’obbligo di qualsiasi Giudice dell’impugnazione di dare risposta a tutte le deduzioni addotte dalla difesa, la Cassazione scrive: “ Deve essere ribadito che, in tema di impugnazione di misure cautelari personali – così come in ogni giudizio impugnatorio -, il giudice del riesame è tenuto a dare risposta, sia pure con motivazione sintetica, ad ogni deduzione difensiva, incorrendo in caso contrario, nel vizio, rilevabile in sede di legittimità, di violazione di legge per carenza di motivazione.  […] A tali condivisibili coordinate ermeneutiche non si è attenuto il Tribunale del riesame là dove ha omesso di verificare la tenuta del quadro indiziario a carico del D’Angelo alla luce delle specifiche deduzioni. Ed invero, le circostanze puntualmente evidenziate nel ricorso della difesa (…) risultano potenzialmente – almeno in linea teorica – rilevanti”. La Cassazione annulla dunque con rinvio la decisione del Riesame che è quindi richiamato a pronunciarsi. Come possiamo leggere nelle motivazioni depositate il 2 maggio scorso, i giudici Alessandra Ilari e i già citati Gargarella, Lombardi riformano l’ordinanza impugnata e ordinano il divieto di dimora per D’Angelo nel comune di Casacanditella. Pertanto, come ha commentato D’Angelo a Radio Radicale, “sono stato mandato in esilio perché vogliono impedirmi in ogni modo di fare il sindaco. Ma io non mi dimetterò. Anzi sto pensando di iniziare una sciopero della fame, sulle orme di Marco Pannella perché credo di star subendo una ingiustizia”. Al Dubbio aggiunge che: “La misura cautelare del divieto di dimora di fatto ha la stessa finalità di impedire di esercitare la propria funzione di amministratore pubblico. Bisognerebbe  approfondire se possono essere ravvisati  addirittura profili di incostituzionalità”. L’altro legale di D’Angelo, Augusto La Morgia, ha depositato proprio in questi giorni un nuovo ricorso in Cassazione contro la decisione del Riesame per ‘manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 cpp. Secondo La Morgia “esiste una discrasia tra la descrizione dei fatti contenuta nei capi d’imputazione e quella che può leggersi nell’ordinanza impugnata”. In sostanza, secondo l’interpretazione degli atti di accusa da parte della difesa, la Procura della Repubblica accusa D’Angelo di aver preso delle tangenti per turbare le gare d’appalto, invece il Riesame motiva il provvedimento sostenendo che D’Angelo non ha “ricevuto il denaro per sé stesso […] ma che l’utilità che il medesimo ne trae era evidentemente in termini di consenso elettorale”.

Commenti

Post popolari in questo blog

Le commissioni di inchiesta in Parlamento

«L’avvocato non può essere identificato con l’assistito»

«Ridurre l’arretrato civile del 90%? Una chimera» Nordio ripensa l’intesa con l’Ue